venerdì, 13 Dicembre , 24

Una miliziana racconta l’Isis

NewsUna miliziana racconta l'Isis

Si chiama “Soldatessa del Califfato” (Imprimatur, 16 euro) ed è la lunga confessione di una miliziana dell’Isis che ha disertato dalle fila dell’esercito islamico dopo aver indossato la divisa nera a Raqqa, in Siria. La storia è stata raccolta da Simone Di Meo e Giuseppe Iannini e svela i mille piccoli (e grandi segreti) della temuta organizzazione terroristica che sta facendo tremare il mondo intero.
La protagonista, Aicha, è stata “social media manager” dei profili Facebook e Twitter dei terroristi perché a Tunisi, dov’è nata, si è laureata in Scienze informatiche. Si occupava di reclutare nuovi militari e soprattutto di trovare compagne di vita ai barbuti jihaidisti.

“Personalmente, ho procurato molte mogli australiane e inglesi ai miliziani islamici. Le donne di quei Paesi – chissà perché – sono particolarmente sensibili al richiamo della guerra di religione. Forse cercano avventura e romanticismo. Ma in Siria non troveranno né l’una né l’altra, solo morte e disperazione. Spero che se ne rendano conto e scappino, come ho fatto io. Chi si unisce in matrimonio con un jihaidista pensa di farlo per un ideale, per passione, per sentimento; invece si ritrova in una condizione degradante da cui è quasi impossibile tornare indietro. Sono condannate. L’Isis non recluta solo donne, comunque – racconta la donna –. Ma pure uomini per le siriane e irachene single. Coi maschi il trucchetto è ancor più facile. Basta qualche bella foto su Twitter o Facebook e aspettare che finiscano nella rete, affascinati dall’idea dell’harem e della vita esotica. Certo, forse questi aspiranti miliziani restano un po’ delusi quando si trovano dal vivo le loro future spose, perché spesso non sono tanto avvenenti come apparivano nei profili (anche questi falsi) su internet, ma ormai il guaio è stato fatto. E bisogna sposarle”.
Ha poi militato nella “polizia morale” della brigata Al-Khansaa addetta al controllo di donne e bambini nello Stato Islamico.
Nel libro c’è spazio per storie inedite sul sesso nel mondo islamico, sulle prigioniere di guerra stuprate da terroristi malati di Aids, sui canali di finanziamento coi video porno e il contrabbando di reperti archeologici.
Finora i libri sull’Isis avevano descritto un fenomeno militare o poco più. Concentrandosi per lo più sulla ferocia di un’organizzazione terroristica che fa della religione islamica “instrumentum regni” (strumento di gestione del potere politico) e sulla sua strategia per la conquista territoriale della ex Mezzaluna fertile. Il libro di Di Meo e Iannini, da pochi giorni in libreria, è una voce dall’interno che offre uno spaccato inedito sulla vita (e la morte, soprattutto) nei territori del Califfo.
Ecco come la giovane soldatessa racconta i suoi primi giorni in Siria.

Le mie giornate si dividevano tra i cinguettii di Twitter e le urla di dolore delle vittime della polizia morale.
La brigata al-Khansaa è l’altra metà del terrore. È composta esclusivamente da donne dai sedici ai trent’anni circa, molte delle quali occidentali. Sono veri e propri “battaglioni” chiamati a verificare il regolare svolgimento della vita cittadina, punendo chi si comporta male. Nella nostra lingua questo esercito è detto “Hesba”, dal nome del quartier generale dove ha sede pure l’ufficio propaganda del Califfato.
All’inizio, la polizia morale era stata costituita con un compito ben preciso: verificare che, sotto il niqab delle musulmane, non si nascondessero soldati nemici. Col passare del tempo sono aumentati i compiti ed è cresciuto di pari passo il suo potere. Le soldatesse camminano in formazione unica. Fanno paura solo a guardarle: tutte vestite di nero, lasciano scoperti solo gli occhi, freddi, inespressivi, senz’anima.
Nel mio battaglione eravamo feroci, crudeli. Sanguinarie. Avevamo diritto di vita e di morte sulla popolazione femminile e minorile. Potevamo entrare a sorpresa nelle scuole per verificare che le maestre e le alunne non solo indossassero il velo, ma che lo portassero correttamente. Nello Stato Islamico, tutte sono obbligate a vestirlo. Nemmeno i manichini nelle vetrine fanno eccezione. Abbiamo frustato più di un commerciante che aveva disatteso questo regolamento o che, nel mese del Ramadan, non aveva osservato i precetti della Sharia disertando i tre sermoni del venerdì. Così come abbiamo picchiato donne e ragazzi sorpresi ad ascoltare musica o a fumare: le canzoni e le sigarette sono vietate in strada, in quanto distolgono il pensiero e inquinano lo spirito, che dev’essere invece puro per tendere ad Allah. Non è possibile nemmeno usare le macchine fotografiche. In città, ci sono manifesti apposta per vietare alle donne di portare i pantaloni in pubblico. Ovunque ti giri, trovi degli ordini.
Eravamo l’incubo della popolazione civile di Raqqa.

Khadijah o del terrore femminile
Un giorno fermammo un autobus per controllare che tutti i passeggeri fossero in ordine. Trovammo una donna che aveva il velo troppo corto: la costringemmo a scendere dal pullman, a tornare a casa e a sistemarsi per bene. A piedi, ovviamente. La sua abitazione distava diversi chilometri. Quando tornò, parecchio tempo dopo, ormai stremata, verificato che tutto fosse a posto, dicemmo al conducente che aveva spento i motori e atteso in religioso silenzio i nostri ordini – e con lui tutti gli altri passeggeri – di riprendere il viaggio. Nessuno osò lamentarsi.
Non eravamo però sempre così clementi. L’Hesba è autorizzata anche a torturare le donne nei casi più gravi, come adulterio o blasfemia. In questo caso, usavamo un attrezzo chiamato “biter”, una sorta di tagliola con ferri acuminati che si applica al seno per strizzarlo e sfregiarlo. L’ultima volta che lo provammo su una cristiana, la morsa fu così violenta che, oltre al sangue, dal capezzolo iniziò a uscire anche del latte. Era diventata mamma da qualche mese, quella poverina. Il sangue da rosso era diventato rosa al contatto col latte. Rivoli di questo liquido scendevano sulla pancia e macchiavano il pavimento, mentre la soldatessa continuava a stringere la morsa.
Dopo il nostro “trattamento”, quella sventurata non avrebbe più potuto allattare il suo bambino. Molte svenivano, altre sopportavano il supplizio piangendo silenziose lacrime.
La più sanguinaria del mio plotone era una giovane donna inglese sposata con un terrorista. Provava piacere a far piangere una ragazza. A vederla priva di sensi, con la bava alla bocca e il corpo percorso da tremiti. Si chiamava Khadijah.
[Aicha non lo sa, ma il nome completo è Khadijah Dare. Originaria di Londra, ventidue anni appena, è stata braccata dalle forze speciali inglesi e dai servizi segreti occidentali dopo aver scritto, sul suo profilo Twitter, di voler essere la prima donna a uccidere un occidentale. Ha acquisito una sinistra fama mondiale per aver inneggiato all’assassinio del fotoreporter James Foley. Sul social network dell’uccellino ha la foto di un bambino che imbraccia un fucile mitragliatore. Probabilmente è il figlio di quattro anni avuto dal marito, un combattente turco di origine svedese che si chiama Abu Bakrm, conosciuto proprio su Twitter].
Era sadica e tra le più fanatiche. Studiava il Corano e, quando torturava qualche prigioniera, ne recitava alcune sure a memoria.

Organi genitali straziati
Le prigioniere che ho avuto modo di incontrare militando nella polizia morale vengono dalla cittadina di Arsal o dal nord dell’Iraq.
Di notte sono costrette a restare nude perché tutto, anche un velo, può essere utilizzato per fabbricare una corda rudimentale con cui impiccarsi. Nei campi di concentramento sessuali di Raqqa, per esempio, si erano verificati molti suicidi di questo genere. Noi, le mie “colleghe” e io, volevamo invece che vivessero. E che soffrissero. Secondo la nostra mentalità, essendo infedeli e schiave, quelle povere donne erano nate per mettere i loro corpi a disposizione dell’insaziabile fame sessuale degli uomini del Califfato. Corpi straziati e abbandonati. Ad alcune veniva addirittura esportato il clitoride, come se avessero potuto magari provare piacere in quelle condizioni. Una mutilazione eseguita dai terroristi, nelle stesse stanze dove quelle sciagurate dormivano, con ferri vecchi e arrugginiti. Li ricordo quei locali: i giacigli e il pavimento erano sempre macchiati di sangue, e c’era una puzza insopportabile. Molte ragazze, alcune poco più che adolescenti, morivano a causa delle infezioni contratte durante questi rudimentali interventi chirurgici. Tantissime erano drogate per annullare le residue resistenze. Nell’esercito dello Stato Islamico sono molto diffuse la marijuana e l’eroina e i soldati ne fanno largo consumo.

Edoardo Tranchese

 

Potrebbe interessarti

Check out other tags:

Articoli Popolari