Poche persone sanno muoversi nel mondo del blockbuster americano come Alfonso Cuaròn, autore di film personali in patria (Y tu mama tambien) e poi in America regista sia di film su commissione (Harry Potter e il prigioniero di Azkaban) che di opere audaci (I figli degli uomini), sempre in grado di dare agli studios quello che vogliono senza cedere un passo su quel che interessa a lui. Gravity è l’ennesimo esempio di questa dottrina e una delle punte più alte del suo cinema. Nello spazio non si sente niente, nè c’è vita. Lo ricorda il regista con un cartello prima che inizi il film che, come è facile capire dal trailer, ruota intorno a due astronauti soli, alla deriva, nello spazio, è un surviving movie, un film sull’epica individuale che, come spesso capita nei film con due soli attori, usa due personaggi per parlare della razza umana. Agli studios Cuaròn dà la più classica delle storie di riscatto interiore attraverso una peripezia esteriore (uno dei due astronauti ha nel suo passato dei traumi relativi alla morte che non riesce a superare), e per sè tiene un ritratto della specie umana impressionante, ci sono momenti in cui l’uomo è a contatto con gli elementi, il sole, la sabbia, l’acqua ma anche il vuoto. Sandra Bullock è una spaventata Ryan, la vera protagonista del film, al suo primo viaggio nello spazio, coadiuvata da Matt, un rassicurante e simpatico George Clooney, alla sua ultima missione. Alfa e Omega, inizio e fine, un legame che assumerà valenza metaforica nel corso della narrazione. Alfonso Cuarón fa parte della ormai affermata “Scuola messicana” del Cinema contemporaneo (insieme ai sodali Guillermo del Toro e Alejandro González Iñárritu). Stessa provenienza, gusti cinematografici simili, cura della messa in scena, grande capacità di utilizzare gli strumenti cinematografici, percorsi produttivi paralleli (tra Messico e Stati Uniti, i tre registi hanno fatto piccoli film e grandi produzioni con le majors e star hollywoodiane), Cuarón fa del cinema spettacolare, ma tenendosi ancorato a temi personali ricorrenti: la solitudine, la visione della morte, la ri-nascita, così come li aveva già affrontati nella sua precedente opera, “I figli degli uomini”, in un futuro distopico, una società morente dove non nascono più bambini.
Margherita Diurno