ROMA – “Fino a circa un anno fa vivevo a Kabul, dove lavoravo come redattrice capo di un settimanale e al tempo stesso ero ricercatrice presso il ministero per lo Sviluppo rurale. Visitavo le famiglie contadine per raccogliere informazioni sulle loro condizioni di vita e sui loro problemi e suggerimenti, poi li consegnavo al ministero per lavorare a soluzioni. Quando i talebani hanno preso il potere, tutto è cambiato: sono dovuta fuggire in Iran con mia sorella e mio fratello. Purtroppo gli altri della famiglia non sono potuti venire perché non avevano il passaporto. La nostra vita è passata da cento a zero in un attimo”.
R.S. ha 26 anni ed è tra le rifugiate afghane che l’associazione Arci è riuscita a portare in Italia grazie ai corridoi umanitari, un protocollo siglato lo scorso novembre tra il ministero dell’Interno e degli Affari esteri con varie organizzazioni della società civile per far giungere in Italia in sicurezza 1200 profughi afghani da Pakistan e Iran. L’arrivo all’aeroporto Leonardo Da Vinci è stato il primo e altri sono attesi anche da Cei, Chiese protestanti e Tavola valdese. All’agenzia Dire R.S. racconta la sua storia chiedendo di mantenere l’anonimato, anzitutto a garanzia della sicurezza dei propri familiari in Afghanistan. Nel suo Paese, sottolinea, era esposta per tante ragioni: essere una donna laureata, una giornalista che scriveva di questioni sociali e femminili e una impiegata del precedente governo per i diritti delle comunità rurali l’hanno automaticamente resa un bersaglio dei talebani, che tuttora continuano a perseguire chiunque rappresenti una minaccia alla sopravvivenza del loro Emirato.
Il giorno in cui i talebani sono entrati a Kabul, prendendo il controllo dei palazzi del potere, il 15 agosto 2021, R.S. lo ricorda bene: “Ero al lavoro, erano le 11 e ho iniziato a vedere un andirivieni di persone in strada, i volti tesi e preoccupati. Tutti avevamo già capito che la situazione era pessima. Ho impiegato quasi tre ore per tornare a casa piedi, non c’erano più taxi, lungo la strada ho visto anche qualche scontro tra la polizia e i talebani”.
La caduta della Repubblica sconvolge la vita del Paese e il Peiramoon Weekly, la testata per cui R.S. lavora, è costretta a chiudere. “Ci hanno minacciato” ricorda la cronista. “Ci hanno inviato una lettera in cui ci informavano che se avessimo scritto ancora, ci avrebbero ucciso. E così abbiamo smesso di lavorare”. A rimetterci non è solo il mondo dei media – secondo Reporters without borders oltre il 40% delle testate afghane ha chiuso – ma anche magistrati, insegnanti, attivisti, funzionari. “Conosco persone che sono state minacciate, torturate” dice la reporter. “Molte altre sono state rapite e non si sa più dove siano. Anche di molte ragazze si è persa traccia: per le donne la situazione è diventata terribile”. R.S. però guarda al futuro: “Sono felicissima di essere in Italia. Voglio cominciare una nuova vita. Per prima cosa, voglio imparare l’italiano e poi voglio prendere un master, trovare un lavoro e portare qui il resto della mia famiglia rimasta a Kabul. La situazione lì è orribile e sapere i miei cari lì mi preoccupa. Ringrazio tutti per l’aiuto che ci state dando”.
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L’articolo Afghanistan, la reporter: “Sono fuggita per non morire, grazie Italia” proviene da Ragionieri e previdenza.
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